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La mia lunghissima storia d’amore con i lirici greci di Quasimodo

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(PREMIUM RATES APPLY) The Italian poet Salvatore Quasimodo, elegantly dressed with jacket and tie, with a melancholic expression, is leaning against the trunk of a big tree in Parco Sempione. Milan (Italy), 1962. (Photo by Mario De Biasi/Mondadori Portfolio via Getty Images)

Quando li leggevo a quindici anni, i lirici greci di Quasimodo mi sembravano luminosissimi nella loro imperfezione. Quei frammenti diversi accostati l’uno all’altro come se fossero un unico componimento, quella metrica audace che inseguiva e al tempo stesso tradiva il metro originale, quelle figure di parola imitate forse non proprio con esattezza ma in modo comunque efficace, mi sembravano – nella loro approssimazione – l’omaggio più alto che un poeta potesse tributare a quelle poesie antiche, il modo più sublime di proporre quelle liriche inarrivabili a un ragazzo come me, inesperto nel greco antico, desideroso di scrivere versi e non ancora capace di farlo.

Rileggerli oggi, all’età di quarantotto anni, nella nuova pubblicazione dello «Specchio» mondadoriano, è come ascoltare all’improvviso alla radio «Ciao» di Vasco Rossi, o rivedere su Netflix una puntata di Star Trek: un improvviso tuffo al cuore, tornare a sentire tutto insieme il gusto acerbo dell’adolescenza, sperimentare in un impeto inaspettato la pienezza che abita l’imperfezione. Anche se l’incompiutezza che trovavo allora in quelle traduzioni probabilmente altro non era che un riflesso della mia giovane età, il modo in cui sperimentavo il mio essere incompleto mettendolo a confronto con una traduzione intenzionalmente imprecisa, compiuta da un poeta che riteneva che «tradurre significasse leggere un testo di altra lingua col proprio linguaggio, col proprio stile». Un poeta, dunque, che pensava che, per compiere una traduzione in modo adeguato, fosse necessario impossessarsi del testo originale e farne una cosa nuova, certamente ispirata al testo di partenza, ma trasfigurata nel linguaggio di destinazione in una forma nuova, con mezzi differenti e uno stile diverso.

Ma nei lirici greci di Quasimodo c’è molto di più dell’incompiutezza dell’adolescenza: c’è l’eros, c’è il gioco, c’è il vino, la natura, l’invettiva, la disperazione per il tempo che trascorre, il dolore della morte. C’è un universo poetico compiuto, un mondo che ruota intorno ai personaggi inserendoli in delle coordinate credibili e genuine. Un universo che Quasimodo a volte prova a imitare mettendo in campo strumenti stilistici simili rispetto a quelli originali, mentre a volte lo trasfigura nel proprio linguaggio, sembrandogli di poter rendere il testo greco in maniera più opportuna adeguandolo al proprio registro poetico.

Si pensi a Tramontata è la luna, poesia che mette insieme ben cinque frammenti diversi di Saffo. Nel frammento 52 il traduttore tenta di imitare il testo originale se non altro dal punto di vista retorico. La lirica saffica contiene una memorabile allitterazione in mi («μήτʹἔμοιμέλιμήτεμέλισσα»), che Quasimodo rende con un’allitterazione in nasale, senz’altro efficace, ma che non regge il confronto con l’originale: «ma a me non ape, non miele».

Nella stessa poesia – e più specificamente nel frammento 94, che nella ricostruzione del traduttore corrisponde alla prima strofe – Quasimodo rende il secondo e il quarto verso con degli endecasillabi. Ora, il secondo e il quarto verso sembrano rispondere – dal punto di vista sintattico e semantico – rispettivamente al primo e al terzo verso, e la compiutezza del metro endecasillabico segna con la sua solennità, evidenziata anche dalla punteggiatura, la compiutezza conclusiva di tale risposta: «Tramontata è la luna / e le Pleiadi a mezzo della notte; / anche giovinezza già dilegua, / e ora nel mio letto resto sola».

La poesia italiana – e in particolare la poesia italiana del Novecento, nella quale operava Quasimodo – non dispone della stessa ricchezza metrica che aveva la lirica monodica del VI secolo, per la quale la musica e il ritmo avevano un’importanza molto più stringente che nella poesia moderna. Nella traduzione, l’endecasillabo può rappresentare una soluzione più che valida: sia perché è il metro più classico e più diffuso della tradizione italiana, sia perché fu usato anche nella metrica greca, nell’ambito della strofe saffica (formata tradizionalmente da tre endecasillabi saffici e da un adonio, ovvero un metro di cinque sillabe composto da un dattilo seguito da uno spondeo o da un trocheo); e perché, infine,a utilizzare la strofe saffica furono principalmente gli esponenti della lirica arcaica, tra i quali Alceo – che a quanto risulta ne fu l’inventore – e Saffo – che nell’antichità ne fece l’uso più ampio.

In Invito all’Erano di Saffo, Quasimodo ricorre, nella sua versione, a delle strofe che si avvicinano molto a delle saffiche, pur senza rispettarne il modello fino in fondo. La quattro strofe di cui consta la traduzione sono tutte composte di endecasillabi, e due di esse terminano con un quinario (che in un caso coincide anche per lo schema accentuativo con un adonio).

La gabbia metrica traccia delle coordinate in cui la traduzione sembra muoversi in maniera più sicura, conferendo alle poesie un ritmo e un andamento che alle orecchie dei lettori suona più connaturato al testo originale. Ma talvolta costituisce una rigidità che, anziché aggiungere, sottrae incisività al testo, costringendo il traduttore a compiere delle scelte difficili soprattutto a livello lessicale.

La traduzione, d’altronde, comporta scelte continue, e la dialettica tra il metro e il lessico costituisce uno dei nodi più complessi con cui un traduttore deve misurarsi nella sua attività. Quasimodo non si impone una norma univoca, e di volta in volta ricerca la soluzione più efficace.

Nei versi finali di Solo il cardo è in fiore, opera una metatesi tra le ultime parole della lirica, rendendo il testo originale con: «ora che Sirio / il capo dissecca e le ginocchia». Da ragazzo ho sempre pensato che la separazione tra «il capo» e «le ginocchia» fosse di Alceo, ma mi sarebbe bastato dare una sbirciatina al testo a fronte per accorgermi che si trattava di un’invenzione totalmente quasimodiana (nella versione di Alceoera «ἐπεὶ<καὶ>κεφάλανκαὶ γόνα Σείριος / ἄσδει»). Quasimodo ha seguito qui il suo gusto personale, il ritmo della propria traduzione, ma soprattutto ha introdotto una forma sintattica tipicamente greca, che tuttavia nel testo originale era assente. In italiano, una metatesi di questo tipo sembrerebbe il risultato di una traduzione letterale da una lingua classica, in cui il ruolo di una parola nella frase era determinato dai casi piuttosto che dalla posizione, e dunque era più semplice affidarsi a un’inversione per ottenere un certo effetto poetico.

In Voglio cantare il molle Eros, nell’ultimo verso Quasimodo opera una nuova inversione. Il testo di Anacreonte («ὅδεκαὶ θεῶνδυναστής, ὅδεκαὶ βροτοὺςδαμάζει») diviene «Eros che domina gli uomini, signore degli dèi». Qui non ci sono ragioni apparenti che inducano il traduttore all’inversione. Sembra quasi che Quasimodo abbia voluto regalare ad Anacreonte un climax ascendente per enfatizzare la potenza di Eros, ritraendolo dapprima come dominatore degli uomini, e dopo – con la maggiore enfasi conferita dalla seconda posizione – signore degli dei.

Un climax a cui l’autore del testo originale non aveva voluto ricorrere, o al quale semplicemente non aveva pensato. Quasimodo non si limita a tradurre dalla lingua d’origine a quella di destinazione. Egli si appropria del testo greco, ne ausculta le intenzioni segrete. Parlando di Saffo in uno scritto del 1945, il poeta aveva affermato: «Non aggiunsi mai un aggettivo negli spazi bianchi dei suoi frammenti (si sa quanto peso abbia un aggettivo nel verso d’un poeta), mai una “cosa” che non fosse da lei accennata, mai una pausa che non fosse nella sua segreta sillabazione». Ma – nel rispetto delle intenzioni dell’autore – Quasimodo non si fa scrupolo di intervenire sul testo, di operare dei cambiamenti, se non della sostanza, certamente della forma, e di produrre come risultato un’opera che egli sente altrettanto propria quanto dell’artefice originale.

Come nel frammento di Licimnio intitolato E il sonno che prendeva diletto, che Quasimodo traduce in modo fedele ma autorevole, con versi limpidissimi, che enfatizzano un singolo fotogramma e lo consegnano all’eternità: «E il sonno che prendeva diletto / a quello sguardo luminoso, / con gli occhi aperti addormentò il fanciullo». Se Licimnio ci ha offerto un epigramma ben composto e originale, Quasimodo lo trasforma in un affresco vigoroso capace di entrare di diritto nella storia.

Ricordo che, laddove la versione di Quasimodo – per qualche motivo – non mi lasciava soddisfatto, da quel ragazzo presuntuoso che ero, mi cimentavo in un tentativo di traduzione tutto mio. Non ero contento, per esempio, della versione di Io già sento primavera, di Alceo: «Io già sento primavera / che s’avvicina coi suoi fiori: // versatemi presto una tazza di vino dolcissimo». Non mi soddisfaceva il «presto», che ignorava l’impazienza estrema di quel superlativo «τάχιστα», e il «vino dolcissimo», che non teneva conto del miele che abitava il vocabolo «μελιάδεοσ». E dunque risposi con: «Fiorita s’avvicina primavera. / Prestissimo versate nel bicchiere / del vino che sia dolce come il miele».

Orgoglioso di essere riuscito a tirar fuori tre endecasillabi puliti ed eleganti, fingevo di non accorgermi di aver ignorato il verbo ἐπάιον, che indica la percezione da parte dell’io lirico. E appuntavo felice nel libro la mia traduzione accanto a quella del poeta.

Ma io non mi sentivo in competizione con i lirici greci di Quasimodo. La nostra era una storia d’amore, un amore pieno di amarezze e di momenti felici. Un amore che, anche quando finisce, continui a portartelo dentro, e che poi,un giorno, riguardando una vecchia foto, senti una fitta al petto che non ti spieghi, e cominci a pensare a che cos’è che non abbia funzionato, e invece ti dici che no, in realtà, non c’è nulla, proprio nulla che non abbia funzionato, è solo la storia che è andata come è andata.

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