Quantcast
Channel: Salvatore Quasimodo | minima&moralia
Viewing all articles
Browse latest Browse all 3

Prenditela con le Muse, non con chi ti critica

$
0
0

 


Insomma se non ci si odia almeno un po’ tra scrittori non si combina molto sulla pagina. Per questo un libro che non smetterei di leggere è l’infinita antologia degli insulti che nei secoli si sono scambiati gli scrittori; un’edizione francese, il Dictionnaire des injures littéraire ha solo 730 pagine! Di questi, tra i miei preferiti, ce ne sono sicuramente un paio contro Hemingway (il primo è di Faulkner: “Non risulta aver adoperato mai parola che costringesse il lettore a consultare il dizionario”, il secondo di Nabokov: “Something about bells, balls and bulls”), c’è l’insuperabile Virginia Woolf su Joyce: “L’Ulisse è l’opera di un nauseabondo studente universitario che si schiaccia i brufoli”, Oscar Wilde su Alexander Pope: “Ci sono due modi per disprezzare la poesia: uno è disprezzarla, l’altro è leggere Pope”, ma anche Truman Capote su Kerouac: “Quello non è scrivere, è battere a macchina”, o il livorosissimo Ungaretti che si sfogava contro i giurati del Nobel che avevano premiato Quasimodo al posto suo: “Un pappagallo, un pagliaccio e un fascista”… A leggerli uno di seguito all’altro, ne viene una sorta di storia della letteratura iperliofilizzata, ma molto utile a capire come il mondo degli scrittori sia fatto di grandi contrapposizioni, battaglie ideali combattute ognuna in nome di una fede ai propri demoni.

Chi ama la letteratura, potrebbe giurare che è così: i giudizi tiepidi li usiamo per non offendere, ma se ci venisse data la possibilità potremmo inscenare nel nostro soggiorno un giudizio universale. Del resto schierarsi fa parte della propria formazione estetica, così anche cambiare fronte. Per dire, si può stare dalla parte di Gore Vidal quando si ha vent’anni (contro Truman Capote: “È in tutto è per tutto una casalinga del Kansas, pregiudizi compresi”) o con David Foster Wallace quando liquidava in un solo colpo Philip Roth, Norman Mailer e John Updike come “grandi narcisisti” ossessionati dal proprio pisello; e ritrovarsi invece a quaranta d’accordo con Bret Easton Ellis che su twitter ha etichettato Wallace come “un impostore” per chiosare che “chiunque giudichi Foster Wallace un genio letterario andrebbe incluso nel pantheon degli imbecilli”. O viceversa.

Così quando ieri ho letto la notizia che Gianrico Carofiglio ha veramente mandato una lettera a Vincenzo Ostuni, colpevole di averlo apostrofato (dopo la mancata vittoria allo Strega del “suo” candidato Qualcosa di scritto di Emanuele Trevi – pubblicato da Ponte alle Grazie, di cui Ostuni è editor) sulla propria pagina Facebook come uno “scribacchino mestierante”, ho sperato che la querelle fosse – anche in sedicesimo – del tipo che abbiamo visto. Duelli, affondi, stigmi.

Purtroppo, non è così. La lettera non è una reprimenda biliosa alla poetica di Ostuni, ma una tristissima e un po’ vigliacca convocazione per causa civile. Carofiglio non difende la propria poetica (e quindi non ha l’ambizione di liquidare quella altrui), ma la propria dignità di letterato perbene, e quindi in fondo la propria immagine di best-sellerista. E lo fa con armi deboli, non potendo permetterselo in fondo. Semplicemente, il suo Silenzio dell’onda è un libro artificioso, stilisticamente pedestre, arrancante nella narrazione, piattamente sociologico [non scrivere "mestierante"... non scrivere "scribacchino"... mi suggerisce il mio super-io mentre batto al pc questo pezzo... non hai né i soldi né il tempo per una causa civile]; un libro per cui la candidatura allo Strega è stata un premio del tutto immeritato – allo sponsor Ferruccio De Bortoli bisognerebbe chiedere il motivo.

Allora qual è la morale che impariamo da questa piccola storia, se non vogliamo rubricarla in un gossip di serie b, quella della pseudo-mondanità letteraria? Beh, non certo il brivido che ci poteva regalare Savador Dalí quando licenziava Louis Aragon con un “Così tanto arrivismo per arrivare a così poco”. Piuttosto, potremmo comprendere come alla colpa – emendabile – di Carofiglio di aver scritto un brutto libro (capita, magari farà meglio col prossimo), lui stesso ne abbia voluto aggiungere un’altra meno scusabile. Voler veder ridotta la letteratura a marketing editoriale. Per questo la sua vittoria in tribunale, che non gli auguriamo, varrebbe molto molto meno di qualche aggettivo che avrebbe potuto infilare al punto giusto.

[una versione molto più breve di questo pezzo è apparsa oggi sul quotidiano "Pubblico"]


Viewing all articles
Browse latest Browse all 3

Trending Articles